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green economyIl presidente del consiglio Matteo Renzi ha ribadito in un post su Facebook il ruolo leader dell’Italia nello sviluppo delle energie rinnovabili. Per farlo ha scelto un momento interessante, ovvero il suo viaggio negli States, in particolare nel Nevada dove Enel ha realizzato una delle centrali più innovative di tutto il mondo. Il messaggio del premier ha quindi ribadito l’impegno italiano nel settore green energy non solo in patria, ma anche con le grandi opere che le società a partecipazione statale stanno realizzando in tutto il mondo.

‘Gas e petrolio servono ancora al paese’. Queste sono le parole che hanno concluso il post, perché se è vero che il paese sta vivendo un buon periodo nella corsa verso le rinnovabili, l’Italia non può completamente sdoganarsi dai combustibili fossili, almeno per il momento. Il viaggio americano di Renzi si concluderà venerdì a Washington e si tratta di un viaggio concentrato sulla tecnologia più che sulla diplomazia e la politica. La prima tappa è stata quindi la centrale di Stillwater, in Nevada, una struttura completamente italiana e che si propone come un vanto per il paese.

Nei messaggi social che hanno fatto seguito al primo, il premier ha quindi invitato le persone a piantare bene i piedi per terra, perché un mondo governato solo dalle rinnovabili è per ora solo un sogno, che un giorno potrà sicuramente avverarsi. Lo scopo è di ridurre le emissioni e la dipendenza dalle energie fossili. Renzi ha quindi invitato la cittadinanza ad evitare gli sprechi e a scegliere di dotarsi di energia pulita, due fattori che possono cambiare il destino del paese se si propongono di natura collettiva. Renzi ha quindi parlato di Enel e del suo lavoro in Nevada. Il governo ha scelto di appoggiare la sua crescita e il suo sviluppo con progetti di respiro internazionale, ma anche mediante progetti innovativi che interessano la diffusione della banda larga in tutto lo stato, una decisione che interessa l’intero paese e che viene chiesta a gran voce dai cittadini italiani.

E’ un po’ che si fa gran parlare dei paesi che beneficiano del calo delle quotazioni del greggio e di quelli che invece ne risentono, sul fronte delle esportazioni (la Russia in primis che ha dovuto rivedere le stime di bilancio in ribasso). Dobbiamo, in pratica, rivedere qualche nostra considerazione perché non tutti conoscevano bene la storia dello Shale Oil.

Qualche tempo fa gli Usa hanno scoperto il modo di espandere la produzione del petrolio, senza dipendere dalla sua importazione (e prima gli Usa erano tra i primi importatori del greggio): tutto merito di un processo all’avanguardia che faceva uso, e questo è nuovo a molti, di una sostanza vegetale importata niente di meno che dall’India, India che per un po’ ci ha goduto, francamente parlando.
Ma dopo le gioie vengono i dolori: questa è la vita.

Gli Usa si sono detti: Perché continuare ad importare questa sostanza dall’India (il Guar) quando possiamo fabbricarcene una noi che adempie alla stessa finalità e combinata con sabbia ed altre sostanze chimiche ci consente di produrre il greggio? Scienziati di laboratorio al lavoro, gli Usa sono riusciti anche in questo ed ora fanno a meno di importare anche dall’India. E pensare che quest’ultima potrebbe anch’essa, a questo punto, darsi allo shale oil ma non lo fa evidentemente per mancanza di risorse o perché preferisce importarlo (da un certo punto di vista, però, non si capisce perché debba).

La contesa Arabia Saudita, Usa varca i confini dell’economia ed attraversa quelli della “guerra fredda” che inconsciamente stiamo vivendo e sta rendendo le nostre giornate sempre più dense di avvenimenti. E dato che il califfato è sempre ormai in prima linea (qualcuno si è ostinato a dire che ciò farebbe comodo perché distrarrebbe l’opinione pubblica dal clima di crisi e miseria economica che ci caratterizza), il principale mercato nero del petrolio è proprio il suo, almeno secondo quanto si dice.

Nuovi minimi per le quotazioni del Brent (47 dollari al barile) e del Wti (45 dollari al barile), ben inferiori a quelli che gli analisti si aspettavano, avendo collocato a soglia 50 quello che doveva essere il prezzo senza più ritorno, quello dove gli Usa non avrebbero più potuto tenere a lungo il giogo dello “shale oil”.
Eppure, evidentemente tutti si sbagliavano ed oggi si propende a spostare ancora più in basso il livello critico, quella sorta di “supporto” naturale dei prezzi: quota 25-30 dollari al barile. E’ mai possibile.

Le dinamiche politiche (il terrorismo del califfato, il mercato clandestino del greggio, la tensione dei rapporti tra paesi arabi ed Stati Uniti, la minaccia terroristica inflitta agli Usa) fanno pensare che il greggio non si fermerà dal crollare perché il problema non è tanto di natura economica, ma è da addurre ad una “trivialità” di fondo, difficilmente risolvibile.

Poi i prezzi ritorneranno ad aumentare, la produzione non sarà più eccessiva per il mercato e la domanda assorbirà l’offerta…e tutto questo andrà a beneficio di nuovo dei maggiori produttori Opec, tra cui i paesi arabi in primis e la Russia che pure è tra le principali vittime dello “shale oil”. Vane le sue attese di sanare il “buco” di bilancio, dovuto anche alla nuova debolezza del rublo ed ai vecchi retaggi di interdipendenza con il biglietto verde.

Ribassisti, quindi, all’opera per le prossime sedute del petrolio che resta tra le materie prime più sotto osservazione del mercato, anche da parte di chi è tutto concentrato sul forex. Per quale motivo? Il petrolio è quotato in dollari e se il biglietto verde si apprezza, ne risente anche la quotazione del petrolio che continuerà a scendere mentre il rally del dollaro la controbilancerà.
Nodi e doppi nodi, meglio di quelli che è capace di fare un marinaio provetto, con il trading. Le correlazioni tra petrolio e forex sono ben fondate.

Si sa, siamo uno dei paesi che, in quanto a carico fiscale, è caratterizzato da uno dei sistemi più proibitivi dal punto di vista fiscale. Troppe tasse, al punto che non arriviamo neanche a beneficiare del calo delle quotazioni del petrolio. Si è sempre sostenuto: se il petrolio costa di meno, si ridurrà anche il peso della bolletta energetica, così come quello del carburante. Peccato che siamo alle solite storie da fisco-fobia.

Basti solo pensare, a titolo di controprova, che malgrado il costo del petrolio sia dimezzato rispetto a 5-6 anni fa, i prezzi finali al litro del carburante sono addirittura superiori a quelli della benzina negli anni in cui il petrolio costa di più.
Di chi è la responsabilità? La stangata del carburante non è certamente ad opera delle associazioni dei distributori, associati a specifici brand oppure no, quanto delle accise e delle altre forme di tassazione che livellano il prezzo finale verso l’alto. E tutto questo viene apertamente contestato da chi sostiene che, in realtà, tutto sia frutto di un’abile “montatura” politica fatta ad arte perché i prezzi del carburante in Italia sono sostanzialmente allineati con quelli europei.

Quindi, non solo non fa bene alle nostre tasche il fatto che le quotazioni del petrolio siano più basse ma confidiamo che l’aumento delle quotazioni del greggio che viene previsto già ad inizio anni, non appena viene raggiunta la soglia tecnica che renderebbe non più economico implementare ulteriormente la produzione di greggio. Tale soglia è stata da alcuni analisti fissata a 25 dollari al barile visto che il test di supporto attorno ai 50 dollari al barile è stato superato per una decina di pips.
E la rincorsa dei prezzi del petrolio secondo i pronostici sarà delle più significative già prima del 2016, giungendo le quotazioni ad uno slancio oltre quota 70 e sino a 80 dollari al barile.

Gli appassionati di economia e finanza oppure chi da poco si è avvicinato al trading inizia veramente a chiedersi: Ma i mercati cosa faranno nel 2015? E’ possibile fare, per modo di dire, l’oroscopo ai mercati, oppure si tratta solo di fandonie?
No, l’economia è fatta di poche congetture e di tanta realtà. E’ difficile certamente avere un occhio il meno possibile distante da tutto quello che ci succede intorno. Noi ve ne facciamo un sunto, in modo che possiate rendervi conto di quanti sconvolgimenti stiano ruotando intorno alla moneta ed alla finanza.

Sicuramente starete assistendo al calo delle quotazioni del greggio sui mercati. Sono belli che finiti i periodi in cui il petrolio e l’oro rappresentavano i due beni-rifugio per eccellenza. Ma cosa sta succedendo veramente? Nulla di sorprendente: quello che l’ottica globale sta creando è andare alla ricerca di maggiore competitività e di minori costi per padroneggiare il mercato.

Quando le sorti in gioco coinvolgono aziende, allora, le vicende sono di poco conto: stiamo assistendo a situazioni analoghe a quelle del petrolio per il ferro (ma perché non si parla quasi mai del calo delle quotazioni del ferro e solo di quelle del petrolio? Ve lo siete mai chiesto seriamente?) con le difficoltà di importanti stabilimenti minerari. Alcuni importantissimi, tra i maggiori a livello internazionale, sono collocati nel listino australiano. Raffica di ribassi in borsa per tutti i settori che trattano le hard commodities.

Quando, invece, le sorti in gioco coinvolgono Stati gli interessi cominciano a cambiare, trame iniziano a tessersi in un modo o nell’altro e non soltanto perché ci si arroga di propinare qualche insulsa favoletta: perché è la verità. Così, si instaura una sorta di “guerra fredda” fatta di dure leggi economiche tra Usa, Russia, Cina, o in sintesi tra blocco occidentale e blocco orientale (anche se i termini, per quello che è la vulgata odierna, ci suonano alquanto indigesti).
Il petrolio in cosa è espresso? In dollari. Il dollaro rincara, il petrolio continua a scendere.
Niente più Quantitative Easing da parte della Fed ed i vari paesi che hanno i loro debiti denominati in dollari Usa, si troveranno alle strette.
Neanche l’Europa, nelle vesti della Bundesbank, è propensa ad acquistare nuovi bond. Ed ironia della sorte, la pensa così pure la Cina.

Sono stranamente tutti d’accordo sul fronte “debito” ma cosa sta succedendo?
Tra i vari contendenti, un’unica missione: stringere nuove alleanze “geopolitiche”, in quanto economiche e rompere con le vecchie interdipendenze. Lo sta cercando di fare la Cina con il Renminbi, nel proposito di farlo diventare la nuova valuta internazionale, lo stanno facendo un po’ tutti, stanchi del dollaro Usa come valuta rifugio, sempre nelle riserve di tutti i paesi.
Ma questa disputa, la cui radice è di natura economica, deve per forza assumere toni “ideologici”?

Ad ogni modo, siamo convinti che dietro i mercati, dietro la disciplina delle leggi economiche ci sia sempre un’alternanza di equilibri, e questa alternanza di equilibri la dobbiamo imparare a leggere nei mercati. Questa è l’unica risposta, l’unico responso che ci sentiamo di dare sugli investimenti migliori per il 2015. Evitate la cecità e cercare di seguire, passo passo, le evoluzioni accettando con consapevolezza i rischi dei vostri investimenti (si guadagna ma si può sempre perdere, con un certo grado di confidenza).
Quello che si dice è che prevarrà l’azionario sull’obbligazionario (ma non dimentichiamoci del probabile rialzo dei tassi da parte degli Usa e dell’Inghilterra), ci si avvicinerà di nuovo verso gli emergenti (ma questo lo si diceva già nel 2014 ed ogni volta manca qualcosa: i fondamentali e la sostenibilità del debito). Forse nel 2015 non cambierà molto ma continuerà un percorso.

Dopo che il rublo era stato lasciato scivolare “liberamente” sul mercato dei cambi, non si è potuta astenere dall’intervento la Banca centrale Russa che si è vista quasi costretta a dare “man forte” al rublo, valuta che continua, senza freni, a deprezzarsi nei confronti del dollaro, tutto ciò certamente fagocitato dalla caduta delle quotazioni del petrolio.
Un “braccio di ferro” che non accenna a placarsi tra Europa, Usa ed Oriente che sicuramente, proprio per i pesi e contrappesi delle singole disputanti, non è ancora giunto il round conclusivo.

Restiamo, in attesa, per il 2015 delle prossime mosse di questo “diabolico” gioco che tiene, ormai, in mano le sorti dell’economia.
Ha sentenziato il presidente della Banca Centrale Russa: “Il rublo è sottovalutato, a causa della debolezza del petrolio”, e racimolando le ultime parole di rammarico sull’ennesimo intervento “restrittivo” sul mercato dei cambi, ha ricordato la consistenza delle riserve internazionali che verranno utilizzate a favore del sostegno delle imprese in difficoltà, sul fronte della dinamica esplosiva dei debiti esteri, soprattutto se espressi in dollari Usa.

L’innalzamento, quindi, del costo del denaro di 100 punti base è stato perentorio e necessario per evitare un crollo del rublo quasi eccessivo. Ma basterà ad arginare la caduta del rublo, oppure ogni intervento di “sterilizzazione” sul mercato dei cambi è ormai inefficace, anche per il sentiment dei mercati finanziari che non certo guardano positivamente all’attuale scenario internazionale?

La finanza ed il forex poco hanno a che fare con le vedute “complottiste” ma certamente ciò che rende difficile la ripresa del rublo, dal punto di vista strettamente economico (e poco ideologico) è rappresentato da due fattori concomitanti: la domanda speculativa del dollaro Usa, anche a livello dell’economia domestica e la fuga graduale degli investitori oltrefrontiera dalla Russia.
E’ certamente da apprezzare, sul piano politico-economico (da tenere ben separato dagli aspetti sociali ideologici)la forza di pressione della Russia che cerca di mantenere sempre un certo “pesoforza” sui mercati, malgrado già l’avessimo immaginata letteralmente “schiacciata” dalle sanzioni internazionali.

Domani si terrà un incontro tra i principali produttori di petrolio per capire quali sono i provvedimenti da attuare, al fine di arginare l’impasse generata dal crollo delle quotazioni. Questo è quanto emerge, al momento, analizzando il quadro generale dei paesi interessati.

oro nero e benzina alle stelleNonostante dall’inizio del 2012 il petrolio sia salito fino a circa 125 dollari al barile, sfiorando il record storico del 2007 (147 dollari al barile), il mercato dei future in consegna 2018 indica un calo del greggio di circa 30 dollari.

Calo dovuto, secondo il mercato, alle nuove tecniche di estrazione che verranno applicate e di conseguenza dell’aumento della fornitura di petrolio grazie a tali tecniche.

Allo stato attuale il paradosso è che proprio l’Arabia Saudita, il maggior esportatore di petrolio al mondo, si preoccupa per l’aumento ingiustificato dei prezzi, che in America hanno fatto salire il costo della benzina a gallone del 12%.

Gli stessi Stati Uniti, coadiuvati dall’Inghilterra hanno fatto richiesta esplicita alla Francia delle riserve strategiche di carburante, come sottolineato da Eric Besson, il ministro dell’energia francese.

Sembrerebbe comunque che la corsa all’oro nero sia destinata a rallentare se non fermarsi per proseguire poi in senso opposto, scendendo sotto la soglia dei 100 dollari al barile.