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Un intervista di Giorgio Faletti del 2013

602-408-20140704_121243_646EB3BCQuesta intervista è uscita nel 2013 su Vanity Fair. L’articolo scritto da Faletti per Vanity nel luglio 2013, dopo l’elezione di Bergoglio. In cui lo scrittore parlava della sua Asti, del nuovo Papa e della fede.

L’Italia è un paese “Peccato che”. Ovunque si vada la frase che si sente ripetere è la stessa, con una semplice variazione di nome, a seconda della dislocazione geografica. Roma è bella peccato che ci siano i romani, Catania è bella peccato che ci siano i catanesi, Torino è bella peccato che ci siano i torinesi. Asti, la mia piccola città di provincia, non fa eccezione. Il luogo comune del “Peccato che” colpisce anche i centri con settantamila abitanti.

Mi sono spesso chiesto, passeggiando per le aggraziate vie del centro storico, se anche io sono uno di quelli a cui bisognerebbe dare un foglio di via per rendere vivibile la città. Non mi sono mai dato una risposta perché in fondo il tutto appartiene a una specie di scherzo collettivo che, come le allucinazioni, è basato in parte sul vissuto ma per la maggior parte sul nulla. Con l’aggiunta dell’altro luogo comune, tipico della provincia, che qui non succede mai niente.

Con queste premesse anche noi astigiani ci siamo trovati, come buona parte del resto del mondo, davanti a un televisore che trasmetteva le immagini di un camino dal quale si aspettava una fumata. Papa Ratzinger, col suo sorriso fissato sulla bocca ma che non riusciva più a raggiungere gli occhi, aveva appena abdicato, termine desueto che nel mio immaginario preferisco all’idea di un Pontefice che dà le dimissioni. Il prossimo, di non facile identificazione nei pronostici, avrebbe dovuto affrontare il ricordo ancora fulgido di Karol Wojtyla e il pesante empasse di un Santo Padre che decide di ritirarsi, cosa successa in precedenza solo una volta negli annali della Chiesa Cattolica.

Finalmente la rituale e liberatoria fumata bianca ha dato l’annuncio al mondo: habemus Papam. Dopo un periodo che è sembrato interminabile il nuovo Pastore è apparso sul balcone. Un viso bonario, un corpo massiccio ma non pesante, una voce che pareva non avere bisogno del microfono, un nome per due terzi italiano ma una nazionalità che, a detta sua, sta “alla fine del mondo”.
Jorge Mario Bergoglio ha presentato subito le sue credenziali assumendo il nome di Francesco, senza numeri ordinali che lo avrebbero messo in ogni caso in una lista. Francesco tout court, come il patrono d’Italia. L’uomo che, dopo essersi spogliato di tutti i suoi averi, viveva in povertà parlando agli uomini e agli animali. In coda a tutto questo un dettaglio piccolo piccolo, una notizia che nella magnitudo del resto poteva passare inosservata.

La famiglia del Papa venuto dalla Pampa è originaria di Portacomaro, un piccolo paese alle porte delle mia città. Per ogni astigiano è stata idealmente una veloce carrellata di Google Earth che, dalla visione generale e anonima della sfera, si è focalizzata sulla ridente città di Asti, che in quel momento ha allargato il suo sorriso. Il problema, se di problema si vuole parlare, è che quella carrellata l’ha seguita tutto il mondo.

Nelle successive tre settimane non c’è stato in pratica abitante di Portacomaro che non si sia trovato con una telecamera di fronte e un microfono davanti alla bocca, alla ricerca di ricordi, impressioni, aneddoti, arie di casa. Ora sono passati poco più di tre mesi dall’insediamento di Papa Francesco e, come prevedibile, la città ha celebrato in tutti i modi la sua “astigianità”, ma senza ossessioni e senza cadere nel fanatismo, mantenendo questo piccolo orgoglio appuntato sul petto come una medaglia al valore religioso.

Personalmente non ho il dono della fede, non credo in un aldilà cosciente, perlomeno in senso canonico. Di conseguenza seguo con un’ottica laica le vicende della Chiesa, che nel corso della storia si è fatta carico di diverse manchevolezze che a tratti me l’hanno fatta guardare con sospetto.

Jorge Mario Bergoglio mi è sembrato da subito un grande comunicatore, una persona dal viso che ispira quella bontà che il rappresentante dei Cattolici nel mondo deve ispirare, un uomo che ha le qualità per mettere riparo con la sua figura a tutti gli scandali che recentemente hanno un poco incrinato l’immagine del Vaticano e di quello che rappresenta.

Mi pare nello stesso modo che il suo operato rifletta questa buona impressione che ho di lui e non posso negare, con un briciolo di sano provincialismo, di compiacermi che sia originario delle mie parti. Se qualcuno non fosse d’accordo con me, può sempre risolverla appellandosi a un luogo comune. Asti è bella, peccato che c’è Faletti.