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renziSe il mercato del lavoro italiano sembra avere ritrovato un bel po’ di ossigeno nel corso del 2015, ci sono alcuni ostacoli che rischiano di minare il ritorno alla normalità. Si tratta, in particolare, del boom di voucher, un sistema di pagamento che mostra due facce della stessa medaglia, una buona e virtuosa, l’altra spregiudicata e strettamente legata allo sfruttamento dei lavoratori.

L’Inps ha stabilito che nel corso del 2015 i contratti stabili sono stati 764mila in più e gli occupati sono saliti di 109mila unità. Gli esperti sono però preoccupati dal boom dei voucher, ovvero i buoni da 10 euro nominali e 7,50 euro netti che vengono impiegati per ricompensare un’ora di lavoro. Si tratta di uno strumento di pagamento che era stato ritoccato dalla Fornero e quindi dal Jobs Act, che di fatto lo ha liberalizzato e ne ha ammesso l’uso in ogni settore professionale.

Attualmente i limiti risiedono nell’ammontare complessivo che il lavoratore pagato con voucher può incassare, 7 mila euro netti all’anno e quelli che arrivano da un unico committente, che ammontano a 2.020 euro l’anno. Il 2015 ha visto ‘staccare’ ben 115 milioni di voucher, ovvero il 66% in più dell’anno prima. Le punte si son registrate a sud con il +66% e nelle isole con un importante +85.2%. Si fa presto a fare i conti, perché se ogni voucher fosse realmente legato ad un’ora di lavoro si tratterebbe di 57mila posti di lavoro a tempo pieno.

La realtà è però completamente diversa, e gli esperti hanno definito il boom dei voucher come un fenomeno perverso. Nella pratica viene infatti impiegato come strumento per ridurre le tutele in settori storicamente a rischio come l’alberghiero, il commercio e il turismo. Secondo i sindacati, la chiave sta nell’incrocio con i dati dell’INPS, perché se tutti i soggetti che sono stati pagati con voucher fossero stati impiegati con altri contratti, i datori di lavoro avrebbero scelto una via meno remunerativa e più adatta alle loro esigenze per remunerare i lavoratori, a loro completo discapito.

lavoro-neroLe donne lavoratrici in Italia sono tante e il loro numero è in continua ascesa, ma si tratta di cifre che non bastano a colmare il divario con l’Europa. La ragione va soprattutto ricercata nei dati che arrivano dal sud del paese. I dati relativi all’occupazione femminile in Italia sono giunti da uno studio effettuato alla fine del 2014 dall’Istat, i quali si sono impegnati a fotografare una situazione molto frammentata, che vede il 46,8% delle donne tra di età compresa fra 15 e i 64 anni lavorare in totale nel paese. Il divario fra nord e sud è però il dato che salta immediatamente agli occhi di chi legge il report dell’Istat, perché se a Bolzano la percentuale delle donne occupate tocca il 64,3%, in Sicilia l’occupazione femminile è assestata al 27,4%.

La crescita dell’occupazione femminile in Italia ha raggiunto buone percentuali negli ultimi anni, con un totale di 9,3 milioni di donne al lavoro nel 2014. Si tratta di 3 milioni di donne in più rispetto a 35 anni fa. I dati hanno dimostrato che l’occupazione femminile ha registrato migliorie anche dal punto di vista della qualità dell’occupazione, con una diminuzione degli infortuni totali, anche se i report hanno dimostrato un aumento dei casi di mortalità sul lavoro. Nel complesso, le denunce sono state 225.534 nel corso del 2015 con dati non ancora consolidati e che potranno essere completati solo nel 2017, con una riduzione del 4,6% rispetto al 2014. I casi di morte sul lavoro denunciati sono stati invece 100 e hanno fatto registrare un +6,4% rispetto al dato raccolto nello stesso periodo del 2014.

Come è diviso il lavoro femminile da nord a sud? Nel complesso e semplificando i dati relativi all’occupazione femminile, nel nostro paese lavora in media meno di una donna su due, ovvero il 46,8% e l’età compresa è fra 15 e i 64 anni, dove il 50,3% è di età compresa fra i 20 e i 64 anni. Altissimo si dimostra essere il divario nelle diverse aree del paese, con il 56,9% di donne tra i 15 e i 64 anni occupate in media nel Nord Italia e il 30,3% nel Sud del paese. Tradotto in termini di popolazione, 5 milioni di donne lavoratrici sono residenti al Nord mentre poco più di 2,1 milioni sono la forza femminile occupata al Sud.

1444045860-air-france-torso-nudoLa Francia è stata scossa ieri da una notizia che ha duramente colpito la sua economia interna e che ha segnato la nascita di intensi scontri fra le file degli addetti ai lavori. Nelle prime ore del mattino di ieri Air France, compagnia di bandiera nazionale francese, ha infatti confermato il piano di ristrutturazione aziendale che mette a rischio ben 2900 posti di lavoro, e che coinvolge soprattutto il personale che lavora a terra negli scali aeroportuali del paese.

La cifra era stata riportata dai sindacati venerdì scorso, ma mancavano le conferme da parte della compagnia. Visto il clima bollente, Air France ha quindi scelto di confermare il piano di azione e annunciato le prospettive del piano aziendale. Il risultato dell’annuncio è stato a dir poco disastroso, in quanto centinaia di dipendenti si sono mobilitati per prendere d’assalto il quartier generale Air France, interrompendo una riunione che era in corso e costringendo due manager a scappare fra la folla inferocita senza i vestiti.

Le immagini hanno fatto il giro del mondo e sono frutto di una rabbia mai sopita, sfociata dopo mesi di voci e di tentennamenti da parte dell’azienda. Manuel Valls ha dichiarato di essere scandalizzato dal comportamento dei dipendenti di Air France e ha manifestato il suo sostegno alla direzione della compagina di bandiera. La manovra si rivela decisamente imponente, in quanto Air France lascerebbe a casa ben 300 piloti, 1700 uomini e donne addetti al personale a terra, 900 assistenti di volo e avrebbe cancellato gli ordini di più di 20 aerei.

Da oggi i piloti e il personale di terra sono in sciopero. I sindacati hanno dichiarato che alcuni hanno scelto di scioperare per alcune ore, mentre altri lo faranno per la giornata intera. La compagnia ha dichiarato che non si assisterà a cancellazioni dei voli ma ad alcuni ritardi, soprattutto nei banchi del check in.

Ecco il 2015, ed ecco le statistiche di come la gente non riesce a trovare lavoro o si ritrova per strada dall’oggi al domani: 13,4%. E’ la nuova statistica che è stata resa nota per quello che riguarda la disoccupazione in Italia. Sempre più giovani non riescono a trovare lavoro nel nostro bel paese, rimanendo così in attesa per strada con le loro lauree e diplomi in cerca di un nuovo impiego, sperando che non sia qualcosa di esageratamente umile.

Sono quasi un milione i giovani che cercano lavoro e sono sotto i 35 anni. Ed è un numero davvero grande, visto che ci stiamo concentrando sui giovani rimasti in Italia in cerca di lavoro. Mentre in altri paesi si registra un segnale a dir poco positivo (diminuzione della disoccupazione in Germania) noi continuiamo a salire. Ma, a proposito della Germania, vale la pena citare che quelle statistiche sono “orchestrate” da un certo punto di vista, dato che la Germania è ancora caratterizzata da un alto livello di sperequazione sociale e da una forte diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza, con distinzione tra zone periferiche e città. Anche lì certamente vi sono paesi in cui la densità abitativa, in rapporto all’occupazione effettiva lasciano presagire situazioni gravi dal punto di vista sociale. Non certo la perfezione che ci fanno capire le statistiche. Come diceva Trilussa, quando si fa una media, si sa quale sarà il risultato nel complesso, risultato che non apparterrà, invero, a nessuno. Lo stesso errore lo commettiamo con l’Italia. A che pro dire che vi è la ripresa dei consumi se si include nella media le zone del Nord Italia, in pari peso alle zone più disagiate del Sud Italia? Il 70% delle imprese che hanno chiuso in tutta Italia provengono proprio dal Sud, solo il 30% è situato al Nord! Statistiche ingannevoli, certamente. E la realtà tedesca, forse migliore di quella italiana, non è certamente perfetta.

Ritornando al caso italiano, in solo tutto Ottobre abbiamo visto andare via praticamente 50 mila posti di lavoro, giusto in tempo per le vacanze natalizie in arrivo. Posti di lavoro che presto si sono convertiti in persone sfrattate, frantumate nell’anima ed in cerca disperata di un posto caldo dove trovare del denaro per vivere.

Se la fascia d’età non conta, il numero aumenta esponenzialmente, e così tanto che c’è da avere i brividi anche senza considerare l’inverno. 3 milioni e 457 mila compongono il totale della popolazione italiana che finora non ha un lavoro. Noi in Italia siamo tanti (60 milioni secondo il censimento) ma il bilancio è seriamente troppo alto per considerare un’annata economica salutare.

E’ tempo di scappare o di rimanere? Molti italiani stanno considerando, dopo la loro visita estera vacanziera, di spostarsi definitivamente altrove. In lidi dove la crisi non si vede. Ma altri sono costretti a rimanere qui volenti o nolenti: riusciranno le nuove manovre ad alleviare il dolore economico nel quale migliaia e migliaia di Italiani stanno soffrendo tutt’ora? Resteremo a guardare e giudicare.

Il jobs act probabilmente non lascerà i nostri “salotti” sino all’inizio dell’anno nuovo. Ciò che ci ha reso più tranquilli è che nulla toccherà i vecchi contratti, non avendo la norma nessun effetto retroattivo. Non che questo ci debba rendere particolarmente ottimisti perché pensate un po’ alla confusione che regnerà in seno alla magistratura, in caso di giudizi per licenziamento illegittimo.
Sono nulli i licenziamenti, ove il fatto materiale addotto non sussiste e chiaramente quelli discriminatori (ma questa è più una tautologia).
E su questo non c’è più alcun dubbio.
Qualche ulteriore novità che ha destato nuovo interesse da parte dei lavoratori? Il nuovo sussidio. Perché coniare un altro nome per reintrodurre un ammortizzatore sociale che non introduce grosse rivoluzioni in campo, se non delle varianti? Ma su questo non faremo mai luce perché ormai ciò fa parte di abitudini radicate nella nostra politica: tutto deve avere un nuovo nome.
Intanto, facciamo un breve lavoro di sintesi e cerchiamo di capire quali sono le caratteristiche del Naspi (Nuova assicurazione di protezione sociale per l’impiego):
– bisogna dimostrare che lo stato di disoccupazione è involontario. Quindi, la solita routine dei corsi di formazione messi a disposizione dalle regioni (speriamo finanziati o comunque gratuiti) per attestare che ci si sta impegnando a reinserirsi nel lavoro. Sappiamo l’utilità delle agenzie di collocamento pubbliche, ormai superate rispetto all’evoluzione dei mezzi di comunicazione odierni!
– l’aspetto economico. Chiaramente, bisogna che siano stati versati un minimo di contributi per averne diritto. Quindi, assunzione regolare a tutti gli effetti. Purtroppo, in Italia il “lavoro nero” ed irregolare è in gran parte predominante. Ma una buona fetta di occupazione è rappresentata anche dal lavoro atipico, quello senza contratto, le collaborazioni occasionali. Bene,anche in questo caso si può richiedere la Naspi. I contributi a quanto devono ammontare? Non molti per fortuna. Sono sufficienti 13 settimane nell’arco del quadriennio precedente la richiesta. Meno di un mese di lavoro è richiesto nell’anno precedente alla domanda.
– la regressività della Naspi. Man mano che passa il tempo, tale ammortizzatore sociale, e qui sta la differenza rispetto alle misure solitamente adottate, è caratterizzato da importi decrescenti, sino a che bisogna eventualmente richiederne la conferma, decorsi 2 anni dalla perdita del lavoro. Ma ciò non è scontato e non verrà stanziato un nuovo sussidio, nelle vesti della Naspi, perché la durata massima è di 2 anni, sempre però in funzione dei contributi già versati (e si parla di settimane, appunto per includere anche i nuovi lavori a tempo determinato o a progetto)
– Ciò che non convince è che sin da subito comincia a ridursi l’importo della Naspi, ovvero già dopo i primi 5 mesi. Mese per mese, scatta la tagliola del 3% che depaupera non di poco quanto si ha diritto.In ogni caso, si comincia a percepire il 75% del salario corrisposto. Capiamo che i lavoratori atipici o le collaborazioni spesso non percepiscono uno stipendio ma provvigioni sul lavoro. Come si può rendere adeguata la nuova Naspi anche a tali contesti di inserimento lavorativo, la nuova realtà italiana (il lavoro a progetto), se si continua a parlare del classico salario?

Tali nuovi meccanismi non soddisfano del tutto chi è abituato alle vecchie regole della Cassa Integrazione e mobilità né chi vive situazioni diverse da quelle ordinarie, a cui i lavoratori, per lunghe generazioni, sono abituati. E’ tempo di cambiamenti (come dice Renzi: il lavoro fisso non è più la regola) oppure di ritorno al passato?

660-0-20140113_140433_CB7E5FD7I nostri nonni a cinquanta-sessanta anni ritornavano dall’estero dopo una vita di lavoro lontano dall’Italia con un piccolo gruzzoletto per farsi una casetta e vivere serenamente con la famiglia.

.Oggi, alla stessa età, spesso si compie il percorso inverso, per andarsene a vivere all’estero, il nuovo boom di espatri è trainato proprio dagli emigrati con i ‘capelli grigi” Nel periodo 2007-13 l’incremento degli espatriati italiani con un’età tra i 40 e i 49 anni è stato pari al 79,2%.

Nella fascia tra i 50 e i 64 anni la crescita ha toccato il 51,2%. I giovani che hanno deciso di emigrare, in percentuale, sono aumentati di meno: +44,4% quanti avevano tra i 15 e i 29 anni, +43% la fascia 30-39 anni. E’ quanto emerge da una ricerca del Centro studi Cna dedicata alle ‘Nuove emigrazioni’.

Negli anni della crisi, tra il 2007 e il 2013, dall’Italia sono emigrate all’estero circa 620mila persone. Quasi il doppio rispetto ai sette anni precedenti. Solo nel 2013 hanno lasciato il Paese oltre 125mila adulti, più o meno gli abitanti della Val d’Aosta o della città di Pescara. Nella stragrande maggioranza, oltre 80mila, si è trattato di italiani, per il resto di immigrati che hanno abbandonato il nostro Paese in preda alla crisi.

La Cna ipotizza che chi emigra dopo il giro di boa dei quarant’anni sono persone che la mancanza di occupazioni qualificate non permette di valorizzare;probabilmente anche imprenditori, che puntano a “vendere” la propria esperienza in mercati emergenti.

camusso-congressoCgil in una nota pubblicata sulla home page del proprio sito afferma ‘La Riforma del lavoro’ – meglio conosciuta come Jobs act – è in contrasto con la disciplina europea.

Il sindacato ha spiegato così la scelta di ricorrere alla Commissione europea: “La legge 78, che elimina l’obbligo di indicare una causale nei contratti a termine, sposta la prevalenza della forma di lavoro dal contratto a tempo indeterminato al contratto a tempo determinato, in netto contrasto con la disciplina europea che, al contrario, sottolinea l’importanza della stabilità dell’occupazione come elemento portante della tutela dei lavoratori”.

La leader della Cgil Susanna Camusso ha, poi, attaccato il ministro del Welfare Giuliano Poletti, autore del Jobs act: “Chiediamo al Governo di porre riparo cancellando quelle tipologie contrattuali fonte di abusi nel nostro ordinamento e riportando i contratti a termine ad un uso funzionale con peculiari esigenze dell’impresa che ne giustificano l’utilizzo”.

“Quattro i punti principali su cui si basa il ricorso – spiegano dalla Cgil – la causalità per il ricorso ai contratti a termine rappresentava un argine contro un loro utilizzo improprio”. E ancora: “eliminarne la motivazione lascia spazio a usi impropri che penalizzano il soggetto debole, cioè il lavoratore”.

Secondo il sindacato, inoltre, “il combinato disposto di causalità, rinnovi e proroghe espone il lavoratore al rischio di non riuscire a firmare mai un contratto ‘stabile’ indicato come ‘contratto comune’ proprio dalla normative europee, con forti penalizzazioni soprattutto per i soggetti più ‘a rischio’, lavoratori over 50 e donne; si introduce un’assoluta discrezionalità rispetto ai licenziamenti”. Infine, non ci sarebbe alcuna prova statistica che “all’aumento della precarietà corrisponda un aumento dell’occupazione”.

polettirenzi-478x248Il decreto lavoro che doveva essere convertito entro il 19 maggio, pena la decadenza, è legge.

Il via libera definitivo della Camera al Decreto Lavoro è passato con 279 voti a favore, 143 contrari, 3 astenuti. IL decreto conserva l’impostazione originaria data dal ministro del Lavoro Giuliano Poletti e dal premier Matteo Renzi, ovvero rendere più facile il ricorso ai contratti a termine  e all’apprendistato con l’obbiettivo, secondo l’esecutivo, di rilanciare l’occupazione. Tesi peraltro contestata dalle opposizioni che considerano queste misure un’ulteriore impulso alla precarietà.

Damiano ha dichiarato:” Il decreto legge lavoro mantiene inalterata nella sua formulazione finale la sostanza delle correzioni apportate in prima lettura alla Camera – dice il presidente della commissione Lavoro della Camera,- Questo per il Pd è un elemento di grande soddisfazione perché, nonostante i proclami del Ncd, non si è tornati al testo originale. Ora l’impegno si sposterà sul tema della Delega e sui suoi capisaldi essenziali come il contratto di inserimento a tempo indeterminato, per il quale dovrà valere a regime anche la tutela dell’articolo 18 e sugli ammortizzatori sociali, che andranno estesi anche ai lavoratori precari. Noi siamo infatti d’accordo su questa tipologia contrattuale, ma a condizione che si preveda una prova lunga e che, terminato quel periodo, ci sia una stabilizzazione”.