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I precari della scuola italiana hanno oggi ottenuto una piccola vittoria, grazie all’Unione Europea. «La normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola è contraria al diritto dell’Unione. Il rinnovo illimitato di tali contratti per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali non è giustificato»: così recita infatti la sentenza della Corte di giustizia europea sui precari della scuola in Italia.

I giudici sovranazionali hanno spiegato che la direttiva comunitaria contrasta con la nostra normativa, che da decenni crea fiumi di precari nel mondo della scuola, senza alcuna possibilità di risarcimento. Secondo il parere della Corte, insomma, non esistono criteri «oggettivi e trasparenti» per giustificare la mancata assunzione del personale con oltre 36 mesi di servizio. Ma cambierà effettivamente qualcosa, adesso, per tutti i docenti precari?

Tutta la vicenda è nata dalle cause presentate da un gruppo di lavoratori precari assunti in istituti pubblici come docenti e collaboratori amministrativi con tanti contratti di lavoro a tempo determinato in successione. Poiché ritenevano illegittimi questi contratti, i lavoratori hanno richiesto l’immissione in ruolo, il pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di interruzione tra i contratti e il risarcimento del danno subito. E i giudici europei hanno dato ragione a questi lavoratori: perché la nostra legge «non prevede criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo risponda ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine». Dato però che si tratta di un rinvio pregiudiziale, la Corte non risolve la controversia nazionale. Comunque si tratta di una vittoria storica.

Esulta ad esempio l’Anief: «Vittoria storica del sindacato, cinque anni dopo la denuncia alla stampa e un contenzioso avviato presso le Corti del lavoro per migliaia di supplenti – dichiara il presidente Marcello Pacifico – E ora 250mila precari possono chiedere la stabilizzazione e risarcimenti per due miliardi di euro, oltre agli scatti di anzianità maturati tra il 2002 e il 2012 dopo il primo biennio di servizio e le mensilità estive su posto vacante».

00025404Per l’agenda digitale si apre una nuova fase ma l’Italia rimane fanalino di coda nell’uso di tecnologie.

La banda larga raggiunge il 99% della popolazione dell’Unione europea ma gli italiani si confermano agli ultimi posti nell’utilizzo di internet. Il 37% degli italiani non ha mai utilizzato internet. Un dato peggiore si trova solo in Romania, Bulgaria e Grecia. 

Lo afferma il rapporto della Commissione europea sull’Agenda Digitale. Il vice presidente dell’esecutivo di Bruxelles, Neelie Kroes, ha dichiarato che ”oggi la maggior parte degli europei è entrata nell’era digitale e intende approfittarne pienamente. Abbiamo risolto il problema dell’accesso a Internet, ma il divario digitale non si e’ colmato. Senza l’impegno di tutti a fare di più, rischiano di emergere in Europa sacche di analfabetismo digitale”. 

Un invito al  il ministro della Funzione pubblica Marianna Madia, a cui è da poco passata la palla dell’Agenda digitale italiana ad impegnarsi a migliorare  il clamoroso ritardo che è stato da poco certificato anche dalla Camera. Il 68% della popolazione dispone di un abbonamento alla rete a banda larga (76% in Europa) ma la percentuale di quelle super veloci, da almeno 30 Mbps, è ancora inchiodata all’1% contro il 21% del resto dell’Unione. Frutto di una copertura sbilanciata: 21% nostrano contro 62% all’estero. Gli ancora più rapidi collegamenti da 100 Mbps sono invece ancora al palo. Deludente pure la copertura 4G LTE per i dispositivi mobili, disponibile per il 39% dei cittadini: bel salto rispetto al 10% del 2012 ma siamo tuttavia lontani dal 59% della media europea.

E va ancora peggio nell’uso di internet. Un dato su tutti: nel 2013 il 34% della popolazione continua a non aver mai avuto nulla a che fare col web. Gli utenti regolari, quelli che si collegano almeno una volta alla settimana, sono il 56%, ben sotto il 72% europeo. Mentre quelli frequenti, che cioè si connettono ogni giorno, sono il 54% contro il 62%. Una scarsa famigliarità con quell’universo parallelo che si ripercuote anche sul fronte delle competenze digitali: per il 60% degli italiani sono basse o inconsistenti (dati 2012). Una cifra che balza al 75% per pensionati, fasce poco istruite e disoccupati. Un vero dramma rispetto al 47% della media Ue. Soprattutto se considerato dal punto di vista della forza lavoro: in quelle fasce di popolazione, la più importante in termini di Pil, la metà non sa nulla di digitale.

Tra i paesi con la più alta ‘alfabetizzazione informatica’ ci sono l’Islanda e i paesi scandinavi dove appena il 5% della popolazione non ha mai utilizzato internet, mentre in paesi come Gran Bretagna e Germania la percentuale sale all’11%

mais-ogm-coltivazione-permessaL’Unione Europea ha stabilito che l’Italia non può proibire la semina di ogm, nelle varietà di mais Mon 810, perché l’impiego e la commercializzazione di questa tipologia di mais è stato autorizzato dalla giustizia europea.

La sentenza riguarda il mais Mon 810, ma potrebbe essere esteso anche ad altre varietà di altri prodotti agricoli.

In Italia non esiste una legge sulla coesistenza dell’agricoltura tradizionale, biologica e transgenica, anche se proposta dal consigliere comunale del Friuli Venezia Giulia, Girogio Venier Romano. Il miglioramento genetico della pianta riguarda finalità positive come la resistenza alle malattie e ai parassiti. Poiché le Regioni non avevano norme sulla coesistenza dei prodotti agricoli, il Ministro dell’Agricoltura nel 2008 aveva comunicato alla Pioneer  Hi-Bred Italia, che commercializza sementi modificati, di non autorizzare la vendita dei semi di mais ogm mon 810.  La Pioneer si è rivolta dunque all’Unione Europea che ha emesso la sentenza secondo la quale se il mais è stato approvato dalla giustizia europea dovrà esserlo anche in Italia. L’Italia potrebbe vietare la semina di prodotti ogm solo se dimostra che è dannosa per l’ambiente.