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senior-couple-mapPrivalia, l’outlet fashion on line numero 1 in Italia, ha stilato per il 2015 la figura dell’italiano in vacanza, grazie alle ricerche condotte dal suo laboratorio di analisi interna Privalia Watch. Che figura è emersa dallo studio? Gli italiani in vacanza saranno iper connessi, leggeranno molto, si rilasseranno e saranno sempre e in ogni occasione ‘alla moda’.

Questi i risultati emersi quindi dalla ricerca, che dimostra come gli italiani non abbiano nessuna intenzione di rinunciare alle vacanze, scegliendo mete più intelligenti, forse più veloci da raggiungere, ma preferendo situazioni completamente votate al relax. Il desiderio maggiore è, infatti, quello di evadere dal traffico e dal tran tran dell’ufficio, ricercando posti tranquilli e per la maggior parte degli intervistati abbastanza isolati.

Il 70% degli intervistati ha infatti dichiarato che vacanza fa rima con relax, quindi la ricerca delle mete si orienta in questa direzione. Il campione di persone interpellate ha inoltre affermato nel 68% dei casi di rivolgersi a siti di e-commerce che propongono soluzioni a prezzi scontati, per non rinunciare al viaggio anche se le risorse economiche sono limitate. Molti saranno inoltre i canali on line che verranno impiegati anche per l’organizzazione stessa delle vacanze, dove spiccano i siti di recensioni per monitorare gli alloggi, le strutture e anche i luoghi dove consumare i pasti.

Italiani in vacanza quindi, al mare o in montagna ma perennemente connessi, e con un occhio allo stile, in quanto gli intervistati hanno dichiarato di votarsi alla ricerca del look ideale anche in situazioni di completo relax, come la spiaggia o le passeggiate in montagne. E gli hobby? Dalla lettura allo svago, dalle passeggiate in città d’arte fino alle cene nei ristoranti, gli italiani non si faranno mancare nulla, ricercando però il tutto in rete e non dimenticando mai il lato ‘smart‘ di ogni evento.

età-adultaLa scoperta sul rischio demenza senile per gli over trentenni obesi è stata fatta dai ricercatori dell’Università di Oxford, dopo una serie di studi, hanno messo in evidenza la stretta connessione che sussiste tra l’obesità e la demenza.

In uno studio condotto con quasi 500mila volontari, pubblicato sul ‘British Medical Journal’, i ricercatori hanno scoperto che coloro che erano ingrassati a 30-39 anni avevano avuto 3,5 volte più probabilità di sviluppare la demenza rispetto a chi non era ingrassato.

Coloro che erano diventati obesi a 40-49 anni avevano avuto un maggiore rischio del 70%.

Chi aveva guadagnato peso a 50-59 anni aveva avuto il 50% probabilità in più di sviluppare la demenza.

Anche chi era ingrassato a 60 anni aveva avuto un rischio maggiore del 40%.

Al contrario, all’età di 70 – 80 anni l’obesità sembrava agisse da protettivo, con un ridotto rischio di demenza del 22%.

Secondo i ricercatori, il motivo per cui le persone obese in età relativamente giovane sono più a rischio demenza e Alzheimer è dovuto all’impatto dell’obesità sul sistema cardiovascolare. Chi, invece, era normopeso da giovane, ma è diventato obeso nella vecchiaia, non ha messo in pericolo il sistema cardiocircolatorio e ciò basterebbe per ridurre il rischio di demenza.

A essere sovrappeso o adirittura, obesi si rischia molto. Tra i maggiori pericoli vi sono quelli di sviluppare qualche malattia cardiovascolare, il diabete e anche il cancro, dunque se non vogliamo disperarci quando è troppo tardi iniziamo a controllare la nostra alimentazione, ricordandoci della nostra dieta mediterranea sana e genuina aiutata da un po’ di movimento.

2011_tablets_preco_isencao_fiscal_f_001In un Italia dove l’economia galleggia e la disoccupazione è ai massimi storici arriva un record che farà discutere la spesa media per i dispositivi tecnologici è la più alta d’Europa. Un record a cui corrisponde anche un elevato utilizzo giornaliero di smartphone, tablet e di tutti i prodotti hi-tech, almeno otto ore tutti i giorni.

Secondo una ricerca di Samsung Technomic Index, che offre una panoramica sugli stili di vita delle persone in rapporto alla tecnologia, lo studio evidenzia che le persone in Italia sono disposte a pagare più di qualsiasi altro cittadino europeo per avere nuovi dispositivi tecnologici.

In tre mesi, infatti, la spesa media degli italiani in prodotti hi-tech è stata nettamente superiore a quella europea, con circa 559 euro destinati all’acquisto di nuovi dispositivi contro i 360 euro degli spagnoli, i 323 euro dei tedeschi, i 274 degli inglesi e i 223 euro dei francesi.

In questo contesto, emerge che in Italia – dove si possiedono in media 16 dispositivi per nucleo famigliare, in linea con i 18 del resto d’Europa – le persone trascorrono ogni giorno quasi un terzo del proprio tempo (7,8 ore) utilizzando smartphone, TV, apparecchi elettrodomestici e altri device.

Quasi il 50% degli italiani, inoltre, possiede un tablet tra le pareti domestiche a conferma del crescente ruolo di questo dispositivo nella vita delle persone, un trend in linea con il resto d’Europa dove si registra una media del 53% di possessori.

Il tablet emerge come un “must have” da regalare alle persone speciali, considerato superiore a qualsiasi altra tecnologia (16%), mentre dallo smartphone le persone vogliono performance sempre più alte e per questo sono disposte a comprarne uno nuovo pur di poter usare le ultime funzioni (26%) o fare tutte le attività in modo veloce e efficiente (32%).

In Italia smartphone, tablet e PC vengono usati soprattutto per navigare in Internet (91%), ma anche per fruire di applicazioni (79%), scattare immagini (79%), acquistare prodotti o servizi (70%), scaricare o fruire in streaming di contenuti musicali o video (58%). Inoltre, sempre più italiani controllano lo status del proprio conto in banca ed effettuano pagamenti dal proprio dispositivo – sia esso un tablet, telefonino o un PC (70% e 68%) – mentre si registra un utilizzo elevato dei social network (71%) e dei servizi di instant messaging (72%) da tutti questi tre dispositivi.

391228_10150375573304828_805819827_8300275_57599954_nNascere e crescere in un ambiente rurale, magari in una fattoria con tanti animali, diminuisce sensibilmente il rischio di contrarre malattie infiammatorie intestinali fastidiosissime e croniche, come la colite ulcerosa e il morbo di Crohn.

Lo rivela una ricerca – “Place of upbringing in early childhood as related to inflammatory bowel diseases in adulthood: a population-based cohort study in Northern Europe” (Il luogo dove si cresce nella prima infanzia correlato a malattie infiammatorie croniche intestinali in età adulta: uno studio di coorte sulla popolazione nel Nord Europa) – svolta presso l’Università di Aarhus, in Danimarca, pubblicata dallo “European Journal of Epidemiology”.

Lo studio, condotto dalla dottoranda Signe Timm per il Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Università di Aarhus, si è basato su un campione molto vasto: 10864 persone – provenienti da Danimarca, Norvegia, Svezia, Islanda ed Estonia – nate nel periodo 1945-1971.
Ai partecipanti è stato somministrato un questionario per conoscere il luogo nel quale avevano trascorso i primi cinque anni di vita; i ricercatori hanno poi confrontato i risultati con quelli delle persone che avevano trascorso la loro prima infanzia in un ambiente urbano.

I risultati Visto l’aumento della patologie sulle quali stiamo indagando possiamo dire che ci sia “una correlazione tra tale fenomeno e la crescente urbanizzazione, dato che sempre più bambini crescono in ambienti urbani”, ha spiegato la dottoressa Timm. Le persone nate dopo il 1952 che hanno trascorso i primi cinque anni della loro vita in una fattoria con animali d’allevamento sono risultate molto meglio protette contro le malattie infiammatorie croniche intestinali più comuni rispetto alle persone nate precedentemente.

Il discrimine temporale si spiega facilmente: molto probabilmente, nelle generazioni precedenti, non c’erano grandi differenze tra il crescere in una città o in un paese rurale. Spiegazioni Lo sviluppo del sistema immunitario si perfeziona proprio durante i primi anni di vita: logico pensare che le influenze ambientali abbiano un effetto determinante nel processo.

In realtà lo studio dell’Università di Aarhus non rivela le ragioni eziologiche delle differenze registrate tra i “rurali” e i “cittadini”. Però, a questo proposito, i ricercatori hanno sviluppato una teoria secondo la quale l’esposizione a un’ampia varietà di microrganismi permetterebbe un più compiuto sviluppo del sistema immunitario. Proprio come è stato appurato per patologie respiratorie come l’asma o per le tante allergie che affliggono l’umanità industrializzata.

“L’ambiente microbico, tra città e campagna, si è molto differenziato nel corso del XX Secolo – conclude la dottoressa Timm – oggi siamo tutti esposti a molti meno batteri differenti negli ambienti urbani. Ciò potrebbe in parte spiegare i nostri risultati”.

131204130551-facebook-password-620xaUn gruppo di ricercatori americani della Cornell University e della University of California di San Francisco, ha ha condotto un vasto esperimento psicologico su quasi 700 mila utilizzatori del più popolare social network, Facebook,  alterando in parte le informazioni da loro comunicate per vedere se il “contagio emotivo” si verifica anche a distanza.

I ricercatori hanno cambiato l’algoritmo che determina cosa viene mostrato nella bacheca di 689,003 persone, che sono state divise in due gruppi, per un totale di oltre tre milioni di aggiornamenti.
Ad uno dei due gruppi venivano mostrati post positivi, con parole come “amore”, “bello”, “dolce”, mentre all’altro apparivano post negativi, con parole come “antipatico”, “dolore”, “brutto”.
È così venuto fuori che i due gruppi hanno reagito a loro volta postando messaggi dal contenuto negativo o positivo a seconda dei post che avevano ricevuto.

“Abbiamo anche osservato l’effetto di astinenza, le persone che sono state esposte a un minor numero di post positivi nel loro News Feed, hanno prodotto una serie di contenuti e aggiornamenti di stato generalmente meno positivi”.

“Gli stati emotivi si possono trasmettere per un fenomeno di contagio, inducendo altre persone a provare le stesse emozioni senza che ne siano coscienti”, hanno affermato gli autori della ricerca, che ha mostrato “la realtà di un contagio di massa attraverso il social network”.

In un post pubblico su Facebook, uno dei co-autori dello studio ha risposto alle polemiche suscitate, ammettendo che le motivazioni della ricerca non erano chiaramente espresse.: Adam D.I. Kramer, che è anche membro del Data Science team del social network, ha spiegato che “all’origine c’è l’impegno a migliorare il prodotto, cercando di capire il reale impatto emotivo sugli utenti.

In particolare, ha scritto Kramer, i ricercatori hanno ritenuto importante studiare l’influenza dei commenti positivi e negativi, sottolineando come questi ultimi lascino alle persone una sensazione di esclusione, che potrebbe spingerle a evitare l’uso di Facebook”.

colonscopiaUn progetto di ricerca italiano firmato da Era Endoscopy, un’azienda che nasce da una costola della Scuola Superiore di Sant’Anna di Pisa, ha messo a punto un robot che consente di poter fare una colonscopia senza sentire dolore, sembra un sogno invece,  proprio in provincia di Pisa, presso la Asl 5 dell’Ospedale di Volterra, è ora in funzione una sorta di bruco robotico che consente di superare i limiti dell’esame tradizionale.
Il robot, ribattezzato Endotics, agisce come un bruco, procedendo secondo un meccanismo di tira e molla grazie a un sistema di ancoraggio posto vicino alla sua testa e alla sua coda, con la capacità di allungare e accorciare la parte centrale.

Si tratta di una sonda che si inserisce nel colon, un “bruco-robot” che trasmette le immagini direttamente su una consolle dalla quale il medico agisce attraverso un semplice joystick. Il sistema Endotics è sicuro perché la sonda semiautonoma, sterile e monouso, previene i rischi di perforazione strettamente correlati alle azioni di spinta tipiche dell’avanzamento dei colonscopi convenzionali.

Giacomo Gamberucci, medico che esercita presso l’Ospedale di Volterra, spiega: “questa tecnologia potrà raggiungere nuove potenzialità, che la renderanno utilizzabile in uno spettro più ampio di applicazioni. Per esempio, potrà essere impiegata nella cura delle malattie infiammatorie croniche intestinali ed è già allo studio la nuova versione della sonda robotica dotata di un canale operativo in grado di eseguire biopsie”

Andrea Piccaluga, delegato della Scuola Sant’Anna al trasferimento tecnologico e docente di management, conclude: “L’azienda è già pronta a sostenere un lancio internazionale per il ‘bruco colonscopico’ che ha buone prospettive di utilizzo anche in Asia”.

can-bill-gates-achieve-the-impossibleLa Bill& Melinda Gates Foundation ha deciso di stanziare centomila dollari per sostenere il progetto dell’università australiana di Wolllongong per un nuovo tipo di preservativi.

La Fondazione di Bill Gates, il cui scopo è quello di offrire un preservativo che aiuti il controllo delle nascite e contrasti la diffusione di malattie sessuali nei paesi in via di sviluppo, ha messo in palio dodici borse di studio e l’ingegnere biomedico Robert Gorkin ha vinto quella per costruire il “condom di prossima generazione” un dispositivo medico che miri a migliorare le sensazioni percepite durante il rapporto e tuteli dal rischio di trasmissione di malattie veneree.

Lo studio che l’Università di Wollongong sta portando avanti è anche quello di trovare nuovi materiali in grado di sostituire il lattice, per favorire chi ne è allergico,  infatti il dottor Gorkin e il suo team stanno  lavorando su alcuni nuovi ritrovati capaci di garantire migliori performance sensoriali e preventive, tipo “l’idrogel”, una sostanza che  può essere modellata in modo da assomigliare alla pelle naturale.

La parte più complicata della ricerca è la sperimentazione,  trovare un campione di persone provenienti dai Paesi in via di sviluppo, disposti a sperimentare il nuovo metodo contraccetivo è difficile per la grande diffidenza e per la mancanza di una cultura della prevenzione nelle zone di Africa sub-sahariana o Sud-Est asiatico.“Stiamo cercando di aprire un dialogo in quelle zone, cercando di studiare gli aspetti sociali e culturali da includere nel progetto, per elaborare i prototipi migliori”.

 Inoltre lo step distributivo sarà uno degli ostacoli più duri da affrontare in queste zone del mondo: Melinda Gates ha posto l’attenzione proprio su questo elemento per evitare che progetti geniali si arenino perché non riescono ad arrivare alla gente.

OLYMPUS DIGITAL CAMERALa ricerca ha fatto un’altro significativo passo avanti per capire come inizia un tumore, ovvero il primo evento molecolare all’origine della formazione delle metastasi. Il risultato è stato ottenuto da un team di scienziati dell’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York, coordinato da Louis Hodgson, pubblicata poi sulla rivista Nature Cell Biology.

A livello molecolare le metastasi sono originate dall’azione di una proteina la “Rac1, gli scienziati usando una proteina-biosensore  fluorescente, che avevano sviluppato, hanno potuto osservare questo fenomeno. Per staccarsi dal tumore primario la cellula tumorale deve prima invadere il tessuto connettivo circostante, detto ECM, extra cellulare, questo avviene attraverso dei filamenti detti “Invadopodia”, simili a dei piccoli piedi permettono alle cellule tumorali di spostarsi. Le “invadopodia” rilasciano degli enzimi in grado di distruggere il tessuto e permettere così alle cellule tumorali di entrare nel flusso sanguigno e raggiungere così altre parti del corpo.

”Sapevamo che le invadopodia erano guidate da filamenti di proteine, l’actina – spiega Hodgson – ma non era chiaro che cosa regolasse esattamente l’actina in queste protrusioni”. Altri studi  avevano conferito alla proteina Rac1 un ruolo primario in questo processo, constatandone livelli elevati in relazione ad una maggior invasività delle cellule tumorali. Tuttavia finora non era mai avvenuta un’osservazione diretta di questo fenomeno.

Questa scoperta apre nuovi orizzonti e nuove speranze nella battaglia contro il cancro, tuttavia sono necessari altri studi e ricerche per capire come inibire la proteina Rac1 in modo sicuro, ”Inibitori dell’Rac1 sono stati sviluppati – spiega infine Hodgson – ma non sono abbastanza sicuri. Rac1 serve anche alle cellule sane. Bisogna spegnere questi segnali solo nelle cellule tumorali”.