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(DPA)FACEBOOK VALE 50 MILIARDI DI DOLLARILa polizia federale del Brasile ha arrestato ieri a San Paolo il vicepresidente Facebook per l’America latina Diego Dzodan. La polizia ha agito su ordine di un mandato disposto dal giudice della città di Lagarto, che si trova nello Stato a nord est di Sergipe. Ma qual è stata la causa dell’arresto del vice presidente del canale social in America latina? La ragione non è legata a soldi o droga, anzi, ma alla mancanza di collaborazione fra il colosso Facebook e le indagini che avrebbero per oggetto dei messaggi di WhatsApp, canale che appartiene a Facebook.

I fatti risalgono allo scorso dicembre, quando un giudice aveva deciso di bloccare temporaneamente il servizio di messaggistica offerto da WhatsApp per non avere rispettato la richiesta di accesso ai dati. Tale richiesta non era stata accolta dal gruppo per ben due volte. Si trattava di una richiesta di dati in merito ad un’indagine che interessava due componenti di un cartello criminale. Il rifiuto di collaborare con la giustizia e di rendere noti i dati ha fatto infuriare il giudice locale, che ha quindi proceduto con l’arreso del vicepresidente del gruppo, contestando reati che interessano la mancata collaborazione con le forze dell’ordine.

Si tratta di una vicenda che riaccende le polemiche sulla legittima richiesta da parte delle autorità di chiedere crittografie e decifrazioni dei codici da parte delle società di telefonia e di messaggistica. Alla base di tutto c’è la spinosa questione della privacy, ma anche tanto spionaggio industriale, perché se il sistema di decodificazione cadesse nelle mani sbagliate potrebbe trattarsi di una tragedia per la stessa azienda, ma anche per i consumatori che potrebbero vedere distrutti in un secondo dati personali e minati anche account legati al deposito di soldi. La questione si rivela molto simile a quella che ha interessato Apple nei giorni scorsi, coinvolta nella scelta di non decrittare i dati relativi all’iPhone del killer colpevole della strage di San Bernardino.

google-musicE’ stata consegnata in questi giorni la notifica che interessa la chiusura delle indagini a cinque manager attivi e non più operanti nella società Google. Gli uomini sono stati accusati di avere omesso dalle dichiarazioni dei redditi relative agli anni fra il 2009 e il 2013 ben 227 milioni di euro di introiti, ovvero di redditi prodotti in Italia. La conferma del fatto è arrivata dalla Guardia di Finanza di Milano e l’inchiesta è stata condotta dalla procura milanese e coordinata dal pm Francesco Greco.

Da tre anni a questa parte la posizione di Google con il fisco italiano è in regola, ma fino all’anno 2013 la società avrebbe deviato utili sostanziosi alla sua sede fiscale di Dublino, un po’ come hanno fatto e continuano a fare tuttora tante multinazionali statunitensi e non che operano nel vecchio continente. Lo scopo è di ottenere una fiscalizzazione più che dimezzata rispetto a quello che le società andrebbero a pagare nei singoli Stati. Si tratta quindi di notizie risapute, che ora interessano anche cinque manager del gruppo.

Molti sono i precedenti conosciuti, fra i quali tutti possono ricordate il caso Apple. In quel caso venne messa in piedi un’operazione di tenaglia fra Agenzie delle Entrate e Dogana, che imputò attraverso un verbale di contestazione un miliardo di imponibile non versato al nostro paese. Il tutto si risolse con un bonifico di 318 milioni di euro a chiudere la questione, molto meno di quello che sarebbe spettato al fisco italiano, ma un accettabile compromesso in cambio di favori e di un buon vicinato fra Apple e l’Italia.

Come si concluderà la questione giudiziaria dei manager Google? La questione è ai ferri corti, ma ciò che conta è che molto probabilmente le società che operano in Italia potranno pensarci due volte prima di dirottare tutti gli introiti nei paradisi fiscali e decidere di pagare le tasse dovute al paese dove operano e soprattutto generano profitto, con i soldi e gli investimenti dei cittadini italiani.